Del fallimento del Titolo V si è data una interpretazione basata sugli effetti e non sulle cause.Dell’enorme contenzioso fra Stato e Regioni si è data ingiustamente la colpa alla legislazione concorrente, che è anzi l’unica strada per un regionalismo cooperativo in un Paese segnato da fratture e differenze storiche.La causa del fallimento, invece, riguarda l'attività del Parlamento, che dopo la revisione costituzionale del 2001 avrebbe dovuto procedere con leggi cornice e invece ha continuato a produrre una normativa frammentata, come si evince da tante sentenze della Corte costituzionale.Quale che sia stata la causa dell’enorme contenzioso, la “deforma” ha ricondotto alla competenza esclusiva dello Stato talune materie troppo generosamente attribuite nel 2001 alla competenza
regionale concorrente (ordinamento delle comunicazioni, grandi reti di trasporto, produzione e distribuzione nazionale dell’energia, coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, etc.).La “deforma” è però andata oltre ricomprendendo anche quelle materie che riguarderebbero perfino il cuore di ogni assetto autonomistico, quali le politiche sociali, la tutela della salute, il
governo del territorio, l’ambiente e il turismo.Nel riformando art. 117 comma 2, vi è tutta una serie di materie integralmente assegnate alla competenza legislativa esclusiva statale. Competenza legislativa esclusiva dello Stato che di per sé non innesca un meccanismo di sottrazione di competenza nei confronti delle Regioni in relazione alle norme di attuazione (v. Corte cost. sent. n. 200 del 2009). Ci si aspetterebbe che nel successivo comma 3 del riformando Art.117 venisse indicata la competenza regionale per l’attuazione delle «disposizioni generali e comuni» indicate nel comma 2. Vi corrisponde invece la previsione di una competenza legislativa regionale, parimenti esclusiva, relativa ai profili organizzativi delle attività previste nel comma 2.Dal che discende che la corrispondente potestà legislativa d’attuazione non è stata attribuita a chicchessia. Ciò indurrebbe a sostenere che la competenza legislativa regionale concorrente,uscita dalla porta, rientrerebbe dalla finestra.L’elenco delle competenze esclusive regionali si conclude con una clausola residuale, in forza della quale spetterebbe alle Regioni, e non allo Stato, la potestà legislativa «in ogni materia non espressamente non riservata alla competenza esclusiva dello Stato». Il che ci porta a concludere,non senza sorpresa, che tra le materie implicitamente riservate alle Regioni vi sono ad esempio: la circolazione stradale, i lavori pubblici, l’industria, l’agricoltura, l’artigianato, l’attività mineraria (la ricerca del petrolio!), le cave, la caccia e la pesca. Salvo non si condivida la tesi secondo la quale una siffatta riserva “implicita” in favore delle Regioni dovrebbe ritenersi condizionata dall’inesistenza, su quella data materia, di esigenze di carattere unitario. Ciò che però costituirebbe un’interpretazione e non una consapevole scelta del legislatore costituzionale.A conferma della svolta centralistica, è stata infine introdotta una clausola di supremazia stata le grazie alla quale una legge dello Stato, senza alcun limite di materia, potrebbe intervenire in materie di competenza delle Regioni «quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero la tutela dell’interesse nazionale» (riformando art. 117 comma 4).In conclusione, da un modello “solidale” di leale collaborazione, si è passati ad un modello nel quale lo Stato eserciterebbe, grazie alla clausola di supremazia, poteri gerarchici nei confronti delle Regioni disponendo liberamente. Si è pertanto sostenuto che lo Stato “regionale” verrebbe
degradato ad un livello prevalentemente amministrativo.La definizione di competenze “esclusive” tra locale e nazionale crea un fossato normativo che impedisce qualsiasi mediazione. Eventuali conflitti si risolvono solo con la preminenza di un livello rispetto a l’altro, poiché viene a mancare lo spazio giuridico di composizione prima offerto dalla legislazione concorrente. In essa la funzione statale era limitata ai principi fondamentali un espressione che dopo un decennio di sentenze della Corte aveva ormai trovato una stabilità interpretativa. Ora si ricomincia daccapo, perché le competenze statali sono definite con una formulazione ancora più ambigua, cioè disposizioni generali e comuni , che richiederà un altra lunga esegesi costituzionale nei prossimi anni.
La “deforma” risulta essere un provvedimento inutile, quanto meno dal punto di vista logico. Se infatti la volontà del Governo era quella di ridurre ai minimi termini la competenza legislativa regionale e di ampliare, corrispondentemente, la competenza legislativa esclusiva dello Stato, sarebbe stato assai più lineare tornare alla versione originaria del 1947.Si è invece seguita un’impostazione discutibile. La vera intenzione della revisione costituzionale è tornare al centralismo statale, per cui a definire in dettaglio le competenze sarà la maggioranza di governo e all' opinione pubblica verrà raccontata la vecchia storiella del Senato delle Regioni. Sembra vera perché viene ripetuta da 39;anni. Dopo l' ubriacatura del federalismo si torna indietro al centralismo statale, di cui ci eravamo liberati con entusiasmo. Si passa da un eccesso all' altro, senza mai cercare la misura in una cooperazione tra nazionale e locale. Un vero salto di qualità del regionalismo italiano si avrebbe solo con la riduzione del numero delle Regioni, alcune sono grandi quanto un municipio romano.Sarebbe anche l' occasione per superare gli Statuti speciali divenuti ormai relitti storici. La legislazione concorrente viene abolita solo per le Regioni di diritto comune, ma resta ed è persino rafforzata per le Regioni a statuto speciale. Purtroppo proprio nelle partite difficili i riformatori muscolari gettano la spugna.
Ivan Malvani