Che cos’è oggi un buon lavoro?
Oggi i giovani, ma non soltanto loro, hanno bisogno di sapere qual è il disegno più grande a cui stanno contribuendo con la loro attività. Allo stesso tempo, i nuovi leader devono saper ispirare le persone”.
(Paola Borromei).
Che cos’è oggi un buon lavoro, dunque? Di sicuro non è più soltanto l’attività in cambio della quale viene offerto un compromesso percepito come vantaggioso. Non è nemmeno più per molti, la sfera nella quale ci si sente nobilitati per il contributo che si presta alla crescita della comunità. È invece un’espressione in pieno mutamento di senso, come un dipinto che sta prendendo forma sopra un altro dipinto, cancellandone le tracce. I pittori siamo noi: imprese e pubbliche amministrazioni, manager, lavoratori dipendenti e autonomi. Soprattutto i più giovani che, con le loro richieste, stanno contribuendo a riscrivere la tela dell’occupazione e del suo mercato.
Alfonso Fuggetta, direttore scientifico di Cefriel (al Politecnico di Milano, aiuta le imprese nella definizione della propria vision), indica dieci dimensioni che fanno del lavoro “un buon lavoro”: ha significato, produce risultati di qualità, è svolto con metodo, è riconosciuto e valorizzato, è sicuro, è flessibile, è cooperativo, inclusivo e aperto, è dinamico, permette di imparare e permette di crescere professionalmente.
Ognuna di queste dimensioni contempla diritti e doveri, obiettivi individuali e modalità relazionali, componendo un quadro che richiede il contributo di tutti: imprenditori, manager e dipendenti, ma anche il legislatore, le associazioni della società civile, nella ridefinizione collettiva del lavoro come occasione di progresso anche culturale e umano.
Il 2023 è l’anno europeo delle competenze, ma l’Italia non sembra celebrarlo con grande attenzione. L’obiettivo dell’Unione Europea è quello di arrivare nel 2030 (domani mattina) a coinvolgere il 60% degli adulti in attività di formazione, l’80% dei quali con competenze digitali di base.
Dopo aver esaminato il quadro delle trasformazioni che stanno investendo la società e il mercato del lavoro, ho voluto interpellare chi, ogni giorno, con il lavoro, lavora: direttori delle risorse umane (i manager che all’interno delle organizzazioni effettuano attività di reclutamento, gestione e formazione del personale) incaricati di scovare i candidati per conto delle aziende. A tutti loro è stato chiesto se, come e soprattutto perché il lavoro sta cambiando e cosa rende oggi un lavoro “un buon lavoro”.
Mai dimenticare la lezione di Martha Nussbaum (filosofa statunitense, studiosa di filosofia greca e romana): le capacità “non sono semplicemente delle abilità insite nella persona, ma anche le libertà o le opportunità create dalla combinazione di abilità personali e ambiente politico, sociale ed economico”. Ciascuno, nelle organizzazioni, può fare la sua parte.
Qual è il fulcro delle trasformazioni che stanno attraversando il mondo del lavoro? Il fulcro di tutti i cambiamenti che vediamo, sta nelle persone. Cambiamenti molto diversi in base alle generazioni che nelle organizzazioni convivono: Boomers, X, Millennials e Z. Per capire l’evoluzione futura dobbiamo guardare soprattutto alla generazione Z, perché tra due anni rappresenterà circa il 30% della forza lavoro globale. Ebbene, che cosa emerge dalle scelte individuali? Qual è il tratto comune distintivo?
L’esigenza di una nuova centratura rispetto alle qualità della vita. Un maggiore equilibrio tra vita privata e vita professionale è ciò che tutti cercano, in particolare i più giovani, e l’obiettivo per cui il 30-33% delle persone, secondo le ultime ricerche, sarebbero disposte a cambiare lavoro. A seguire compaiono le altre motivazioni: una maggior rispondenza tra i propri valori e quelli dell’azienda, l’attenzione alle tematiche di sostenibilità, l’orientamento alla diversità e all’inclusione, l’aspetto economico e sorprendentemente in coda.
Perché in Italia i giovani non trovano lavoro: Si chiama “mismatch”, ovvero discrepanza tra competenze richieste dalle imprese e competenze acquisite negli studi. E ci costa caro: quasi 40 miliardi e migliaia di fughe all’estero. È un numero veramente preoccupante, perché si è triplicato negli ultimi dieci anni. C’è un tema critico di preparazione scolastica, di competenze che formiamo nei percorsi di studio che riguardano tanto le professioni digitali, richiestissime, i profili per l’industria 4.0 fino a quelli meno specializzati. Ogni giorno assistiamo non solo alla fuga dei cervelli ma anche alla fuga di capitali. Non solo non siamo capaci di creare nuovi Brand, ma permettiamo a gruppi stranieri di fare shopping nella nostra bella Italia di quelli esistenti.
Che cosa sta succedendo nelle aziende? Alla presenza di una generazione dominante, che ha considerato il lavoro come fulcro dell’esistenza, centrale per l’emancipazione economica e dunque meritevole di sacrifici, si è accompagnato l’ingresso della generazione Z, che ha un rapporto molto meno fideistico con il lavoro, visto più come uno strumento che come fine. Un’attività che, di conseguenza, non deve diventare invasiva rispetto agli altri interessi e non deve peggiorare la qualità della vita di chi la svolge.
La convivenza di queste due generazioni determina squilibri, anche perché è stata la classe dirigente attuale a fissare le regole dell’organizzazione del lavoro, difficile da accettare per chi entra adesso. Da qui la necessità di trasformare gli assetti. Una necessità ineludibile, perché è impensabile per cambiare l’approccio generazionale. Dobbiamo trasformare le aziende in modo da accogliere i talenti delle nuove generazioni adattandoci alla loro mentalità, alla loro cultura, al loro modo di vedere.
L’errore come viatico per l’innovazione? Fino a poco tempo fa veniva bandito: non si poteva sbagliare. Oggi, invece, avanza la consapevolezza del valore dell’errore e diminuisce l’attrattività della ricerca dell’eccellenza, che è una chimera. Anche perché i miglioramenti marginali che questa ricerca garantisce valgono poco. Vale molto di più chi rischia e sbaglia, perché cerca strade innovative e alternative. L’elogio del fallimento, peraltro, implica e stimola anche il lavoro di squadra, perché l’errore per avere valore si deve condividere.
In definitiva, che cos’è oggi un buon lavoro? Un buon lavoro è un lavoro che offre la possibilità di realizzarsi, vivere bene la giornata lavorativa, avere un confronto sereno e costruttivo con il proprio manager e con l’azienda in senso più ampio, intesa come sistema di regole e valori. Un lavoro che sfida quotidianamente a migliorarsi e a immaginare forme di evoluzione della propria competenza professionale e del proprio riconoscimento all’interno dell’azienda. In queste condizioni il benessere non è una conseguenza del lavoro, ma una dimensione che nel lavoro si vive.
Giovanni Matera