“Il “Potere” non risiede più necessariamente solo in palazzi governativi e sedi statali, con note etichette ufficiali, ma ha trovato nuove residenze sia in sedi internazionali, sia specialmente in sedi private, smettendo di indossare i consueti abiti istituzionali sotto l’egida del diritto pubblico.” (Maria Rosaria Ferrarese).
La privatizzazione veniva presentata come ricetta sicura per incrementare l’efficienza dei sistemi economici, e dunque per ridurre gli sprechi della spesa pubblica. Fu presentata con tale insistenza e sicurezza, che quasi tutti i paesi, comprese la Cina e la Russia, cedettero a quella tendenza.
La privatizzazione riguardava le cose, la loro proprietà, o la loro gestione, che passavano dalle mani dello Stato a quella dei privati. Ma con ciò implicava una privatizzazione del potere stesso, cosicché oggi vari soggetti privati svolgono un ruolo rilevante direttamente sulla scena del potere, strutturando modalità di funzionamento del nostro mondo tramite decisioni, regole, standard, logaritmi, modelli di comportamento, e altri atipici moduli di regolazione, che hanno valenza politica e ricadute sul piano pubblico e collettivo a livello mondiale. Inoltre, essa si estende a così tante cose e settori: la sicurezza, l’acqua, l’energia, compresa quella atomica, la guerra, le prigioni, la moneta, lo spazio, la comunicazione, ecc. Tanto che qualcuno ha parlato di “privatizzazione di ogni cosa”.
È chiaro, dunque, che negli ultimi decenni del novecento è avvenuta una vera e propria rivoluzione, rispondente a una precisa configurazione di interessi, che metteva in crisi i tradizionali paradigmi di facile riconoscibilità del potere, caratterizzata dalla preminenza dello Stato.
Insomma, la “governance” era il tipo di abbigliamento adatto a rispondere al bisogno di copertura istituzionale di azioni e operazioni di un mondo che si stava globalizzando, e che chiamava in causa non solo nuovi attori, ma anche nuove misure giuridiche, che non corrispondevano più a quelle segnate dai confini degli Stati.
Il mondo globalizzato si regge su un’intera rete infrastrutturale fatta non solo di ponti, strade, cavi sottomarini, linee aeree e collegamenti Internet, ma anche di assetti regolativi creati da soggetti privati per servire bisogni di vario genere del mondo globalizzato. Soprattutto la vita finanziaria del globo si avvale di una complessa infrastruttura regolativa che somiglia a una rete: una rete i cui nodi in parte sono originati da autorità pubbliche, e in parte hanno una provenienza privata, spesso celata dietro nomi o acronimi di difficile decifrabilità. Il tutto appare come una valigia con il doppio fondo: il primo è fatto di partecipazione, apertura, trasparenza; il secondo, al quale pochi possono e sono in grado di accedere, è fatto di poteri privati spesso incontrollati e misteriosi.
Le nuove tecnologie hanno svolto un ruolo centrale nel mutare gli equilibri di potere soprattutto tra Stati e mercati, con riflessi importanti sia sul piano politico che sul piano economico, accelerando e favorendo la privatizzazione e la conseguente perdita dei confini politici.
Oggi la digitalizzazione e la creazione di varie forme dell’intelligenza artificiale, presenze costanti del nostro scenario, in settori come la medicina, la giustizia, l’agricoltura, la sicurezza, la manifattura, la pubblica amministrazione, la scienza, aerospaziale e militare, la navigazione, ecc., pone nuovi temi giuridici.
Come negare l’utilità del frigorifero” intelligente” che ci segnala che la scorta di latte è finita? E quali obiezioni possono farsi al robot che aiuta una persona malata e deambulare? Questi sono esempi efficaci di forme di Intelligenza artificiale, anche se talora possono anche’essi avere controindicazioni, configurando, ad esempio nel caso delle procedure di riconoscimento facciale, dei rischi per la privacy.
La consegna di “superpoteri” cognitivi e decisionali all’intelligenza artificiale non avviene in una cornice di neutralità politica, e configura poste in gioco, rischi e problemi di natura squisitamente politica che richiedono di essere compresi e governati. Occorre domandarsi chi siano i padroni dell’intelligenza artificiale e quali bisogni essa osserva.
Più in generale l’intelligenza artificiale “è politica condotta con altri mezzi, sebbene sia raramente riconosciuta come tale. Queste politiche sono guidate dalle grandi società dell’intelligenza artificiale, vale a dire la mezza dozzina di aziende che dominano il calcolo planetario su larga scala”.
Le tecnologie informatiche hanno doppiamente spiazzato le consuete modalità di gestione giuridica dei problemi. Le “norme” derivanti da tecnologie informatiche procedono a un ritmo accelerato, che mette sempre più sotto pressione le modalità politiche e giuridiche consolidate. Queste sono costrette, nelle ipotesi migliori, a continui riadattamenti, in funzione di sopravvenute innovazioni, come è accaduto in materia di privacy, o in tema di normative antitrust e che, nella peggiore delle ipotesi, sono condannate a multe inefficaci e incapaci di un impatto effettivo. Inoltre, a differenza delle norme giuridiche, quelle derivanti da logaritmi sono rigide e impenetrabili e non conoscono le eccezioni e le deroghe che sono proprie delle norme giuridiche. Tutto bene, se non ci fosse un problema di democrazia alla radice delle varie espressioni normative generate dalle tecnologie: la leggibilità delle chiavi profonde che strutturano i logaritmi, che é riservata a pochi specialisti intermediari indispensabili, che sono tuttavia dei soggetti privati e anonimi al servizio di chi li retribuisce.
Questi sistemi godono quindi di un’aura di complessità, di impenetrabilità e di mistero che può essere parte del loro fascino, ma che tende a renderli immuni da regolamentazioni e lontani da criteri di trasparenza democratica, diventando talora essi stessi “legislatori” e “regolatori” di fatto.
Manca un’identità politica capace di misurarsi con questo piano a livello globale e analizzare l’impatto sociale dell’intelligenza artificiale e la sua coerenza con i valori umani.
Giovanni Matera
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